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Phlebas il Fenicio, da quindici giorni morto,
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il fondo gorgo del mare,
E il profitto e la perdita.
(…)
Gentile o Giudeo
O tu che giri la ruota e guardi sopravvento,
Considera Phlebas, che un tempo fu bello, e alto come te.

T.S. Eliot, La terra desolata, IV


Qui la pietà è lontana come il mondo,
e non c’è poesia tra le lenzuola
secche di lavatura, con i tubi,
la macchina per respirare e il cuore
che salta su uno schermo qui vicino.
Soltanto a tratti, oltre i vetri chiusi,
un motorino in corsa mi ricorda
che c’è qualcosa fuori, e scorre intatto,
che mi oltrepassa e che non mi appartiene.
Questo soltanto adesso mi compete:
un letto bianco nella mezza luce
e un corpo sordo che non mi risponde,
spiaggiato come inutile balena.
Non ci sarà marea mai sufficiente
a riportarmi a casa, alle correnti
fredde e profonde che chiamiamo vita;
dimentico del grido dei gabbiani,
su questa spiaggia mi tocca finire.
Buon lavoro ai vermi allora e all’oblio,
che con timide, laboriose mani
vengano a cancellare questo schifo
di me stesso a me stesso, non più un uomo,
ma un tristo sacco che escrementa e crepa.
Io non sono così, io se n’è andato,
lasciandomi a spiegare al Controllore
che ho perso il mio biglietto e non lo trovo
(e intanto quello scrive il suo verbale:
temperatura, diuresi, pressione…)
e io che vorrei dirgli per favore,
mi lasci stare, io sono arrivato,
e qui sarei disceso in ogni caso;
un posto vale l’altro, ogni stazione,
se la stazione di partenza è persa
e il mondo piega in rapida rovina.

Che mestiere di merda il suo, Dottore;
io torno a respirare aria pulita,
e in una rata sola saldo il conto.
Ma lei, domani, e poi domani ancora,
per tutti i domani della sua vita
sarà rinchiuso qui, tra puzza e grida,
in fondo lei è solo un secondino
di un carcere che non conosce appello.
Perciò, Dottore, e dico davvero,
spero che lei sia ingordo e senza cuore,
e io per lei un numero tra i tanti
numeri già usciti, inutilmente,
solo per farle cassa a fine mese,
e che rientrando alla sua bella casa
lei non incontri mai quegli occhi bianchi
che mani d’altri quando viene l’ora
nascondono coprendo col lenzuolo.
Sia gretto, Dottore. Sia efficiente,
metodico, tutto amanti e carriera,
si salvi lei che può, noi qui affondiamo.

E’ il naufragar così che mi fa senso,
questa scialuppa che non tiene il mare,
e dalla quale è impedito lanciarsi,
come se sempre gorghi, e sempre mare
non fossero il destino che mi aspetta.
Mi chiedo se non provate vergogna,
mettervi in tanti contro un uomo solo
che non ha più nemmeno gambe e fiato
per arrivare fino al davanzale,
passare quella soglia da vincente,
l’ultimo filo di lana al traguardo,
e lasciarvi così, senza voltarmi,
solo con la mia pena e la mia gloria.
Io sono già perduto, e vi disprezzo
per la viltà che voi chiamate amore
e mi incatena sulla vostra rupe,
voi così deboli, pigri, confusi,
fuggite spaventati alla mia fine,
e inventate mille scuse e pretesti,
incapaci di sopportarla, e preti
sempre zelanti, politici cani,
filosofi da burla e guitti e troie
vi danno corda, solo per legarmi.
Io non ho avuto facoltà di scelta,
e strappo ogni respiro a morsi amari,
ma giunto anche per voi quel giorno vuoto,
quando anche le preghiere taceranno
di fronte a un ospite così inatteso,
la vostra fine sia selvaggia e dura,
e lenta, e umiliante, e disperata,
esattamente come fu la mia.

E mentre il giorno sfuma come sempre
su di me, sulle parole e le cose,
contemplo lo splendore del mio odio,
e poi ne faccio un bozzolo di seta
e mi ci accuccio per dormire in pace.
E vorrei dirvi ancora tante cose,
ma adesso sono stanco, e non ho voce;
e il mio pensiero corre verso casa,
nella tregua dell’ora più serena,
quando in stradine tra i campi i ragazzi
spengono i fari e abbassano i sedili,
ed oltre il parabrezza che si appanna,
inascoltata, nel deserto azzurro,
tenue sul fiume una stella si accende.



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